Nella strada verso l’ufficio c’è un muro di gelsomino, tra qualche settimana torneranno i fiori con tutto il loro profumo, una malìa che sa d'incanto e memoria. Chiudo gli occhi e sono di nuovo picciriddo in Sicilia, in quelle sere in cui si andava a cercare il fresco della sera nella casa di campagna delle cugine di mia madre. Lì, di nuovo sul sedile posteriore della R4 quando le preoccupazioni e i pensieri erano ancora roba da adulti e con mia sorella si disegnavano mondi mentre i pomeriggi duravano vite.
Sento la voce di mio padre che canta Endrigo sulle note di una musicassetta sbucata fuori dal fustino di cartone del Dash. Musica e memoria, in una continua staffetta tra generazioni. Quanta musica abbiamo ascoltato con il piccolo, quando ancora era solo un ricciolo di cellule nel grembo di mia moglie, con Alexa che in cucina ci colorava l’attesa con le nostre playlist. Quando aveva pochi mesi non c’era verso, il piccolino si addormentava soltanto tra le braccia mia e di mia moglie, canzone dopo canzone. E mi sono ritrovato in quelle canzoni che ascoltava mio padre, quella colonna sonora che dilata ricordi e accorcia distanze spazio-temporali, ricucendo cicatrici ormai seccate, solchi di memoria che sembravano destinate a inaridirsi e tornano fertili e fecondi. Abbiamo provato a condividere questa playlist ideale con tutti voi, i titoli delle canzoni non contano poi tanto, geometrie di suoni e ritmi si annodano in un ouverture fatta di infinite declinazioni in cui le ninne nanne passano di generazione in generazione, come ci racconta in una delle sue pennellate Zak.
Questo è il 31esimo numero di Padri in formazione, siamo 4 papà e ogni due domeniche ci ritagliamo un momento per riflettere su cosa significa per noi oggi essere padri, concentrandoci su momenti che altrimenti fuggirebbero via, alla luce di quello che andiamo sperimentando con i nostri figli. Anche per poter, “esercitare la stanchezza”, come scrive il nostro Bisanti, “permettendosi di essere stanchi e nient’altro, stare e basta”, staccandoci da questa illusione di reperibilità costante che divora ogni singolo momento.
Padri_e lettere
di Marco Bisanti
Il martello batte sulla corda una volta, oppure mille. Solo quando si ferma sa cosa ha fatto, quale musica è stata. Quale continuazione del passato nel presente. Il complesso che nell’aria ha mosso certe onde vive grazie alla consegna della tastiera ferma. Oggi ho smesso di suonare, fatto l’ultimo gesto. D’ora in poi è risonanza. Per il tempo necessario, terrò le mani in sospeso. Cambierò ogni giorno i fiori sul tavolo aspettando nella camera della fiducia. Ho suonato abbastanza da rendere elastico il tempo fino al raccolto – sia pure magro o pieno di frutti, il mio Unico l’ho dato e so che tornerà: sarà un bacio all’improvviso o una risata che si annuncia da lontano. Nell’attesa che il suono arrivi dove l’ho mandato, il grande vuoto si riempirà di terra e cosmo, e io facilmente mi perderò in altre faccende. Potrò anche dimenticare tutto. Un giorno, però, qualcosa mi cercherà: sono l’opera. Tornerà il suono che ho staccato da me. Sarà stato nell’udito altrui, avrà il volto del loro “momento” ma sarà ancora la carne mia e delle vite che ho trascinato con me, nel presente dell’esecuzione, senza chiedere il permesso. Sarà un bacio per sempre o anche una risata: la amerò ugualmente questa musica. Tornerà, mi troverà, e mi darà il mio nuovo nome.
Adele avrà quasi cinque mesi, quando metterà piede per la prima volta a Palermo, per la Pasqua in Sicilia, l’altra isola rispetto a quella dov’è nata. Oggi andavo a prendere Arturo a scuola e questo pensiero su sua sorella mi ha inventato una commozione. Erano da poco passate le quattro e avevo già le gambe stanche per una notte troppo breve, un rassetto domestico di portata esistenziale e impegno fisico importanti, un bicchiere di vino dopo pranzo e un fallito tentativo di riposare. Ma era quella stanchezza a regalarmi lo spazio per concepire la prossima felicità: tanti cari conosceranno il mio pettirosso e io la vedrò sorridere nel posto dove sono cresciuto e di cui sono fatto per sempre. Facce, strade, giardini, spiagge, suoni, odori, luci, ritmi, cultura. Sarà la prima volta che potrò vederla davanti al mare. La stanchezza di oggi mi ha liberato dalla possibilità stessa di pensare alle incombenze che pure intanto mi pretendono – quotidiane, burocratiche, lavorative, organizzative. Così, oggi ho intuito che uno dei più diffusi e taciuti desideri – non solo di chi ha figli ma di tutti quelli che non possono smettere di essere qualcosa, dai tossici del lavoro agli schiavi in ogni campo, dal divertimento al più serioso monachesimo ideologico – uno dei sogni più riposti è quello di poter essere semplicemente stanchi. Esercitare la stanchezza: esibire al mondo e a sé stessi un passaporto di debolezza, permettendosi di essere stanchi e nient’altro, stare e basta. A volte, ancora, quando Adele è con me e le mie braccia sono la sua casa del sonno, mi godo questo lusso. Guardo le nuvole senza altri pensieri e avverto l’esercizio antico di una presenza, lo scorrere esclusivamente fisico del tempo su di me, nell’unisono di una giostra che si è fermata per un attimo e lascia spazio solo ai respiri che ci sento fare, al di qua della tenda, nella camera del sole.
Pennellate
di Marco Zak
La musica è stata una nota (pun intended) costante nella vita assieme ai miei figli.
Il tono (sorry) è sempre stato quello di non cedere a infantilismi, quindi abbiamo sempre ascoltato assieme musica “da grandi”.
Per inciso, essendo il pargolo in questione benedetto da un voce perfettamente intonata, sono stato allietato da interpretazioni struggenti di classici di vari cantautori italiani eseguiti con una voce argentea.
Il corto circuito perfetto fu con una ninna nanna: “Per un vecchio bambino”, di Vecchioni (che il pargolo chiamava “adesso è presto, adesso no”); canzone scritta per il padre, che associava al comportamento di un bambino, che io avevo sentito con il mio, di papà, e che adesso cantavo al figlio cui avevo messo il suo nome.
Comunque la sentenza definitiva sulla musica a casa fu di un cugino pianista in visita da noi che, notando i dischi che mettevo in presenza del primogenito, mi guardò è disse “questo è plagio, lo sai?”. E dopo un momento di pausa: “approvo”.
Non si smette mai di imparare
di Alessandro Buttitta
Immaginatela così. Sabato sera, di ritorno in automobile sulle strade di Palermo. Saranno all'incirca le 22.00, Spotify lancia “Now and Then” dei Beatles, una pioggerellina leggera leggera condiziona il traffico lungo via Regione siciliana. Su un motore - uno Scarabeo ammaccato, con diversi chilometri sul contatore - un ragazzo gioca con lo smartphone. Ha la casacca arancione di Just Eat; non avrà più di vent'anni, è immerso nelle dinamiche di Roblox. Alla guida c'è un signore di mezza età, verosimilmente il padre del ragazzo. Guarda dritto davanti a sé, attento a non accelerare troppo. Muove il veicolo con circospezione sull'asfalto bagnato.
Nei cinque minuti che seguono, nella mia testa, si incrociano pensieri di diversa natura sulla scena alla quale ho assistito.
Prima ipotesi: un padre amorevole, invece di restare a casa a guardare la televisione, decide di accompagnare il figlio durante le consegne del sabato sera.
Seconda ipotesi: un padre amorevole, particolarmente ansioso, accompagna il figlio durante il turno di lavoro perché preoccupato delle condizioni atmosferiche.
Terza ipotesi: un padre amorevole, incapace di lasciare andare il figlio da solo in uno dei suoi primi lavori, si prende responsabilità che non gli spettano.
Quarta ipotesi: un padre amorevole, che trova sempre una giustificazione alle mancanze del figlio, si lancia per le strade di Palermo in aiuto di un ragazzo che non trova ancora pronto.
Ci sarebbero altre ipotesi, stavolta sul ragazzo, ma questa è una newsletter sui padri in formazione. E forse è meglio così.