«Sai perché cadiamo, Bruce? Per imparare a rimetterci in piedi» così iniziava il primo capitolo della trilogia dedicata a Batman da Nolan. Ogni giorno vedo con che ostinazione il piccolino di casa cade e si rialza mentre impara, con progressi apparentemente impercettibili, la magia dell’equilibrio. In questo suo continuo esplorare c’è tutta la meraviglia e la determinazione dei nostri piccoli pionieri. Ogni volta che cade mia moglie e io cerchiamo di non farne un dramma. Come in ogni cosa che riguarda i figli non c’è una formula unica da applicare a ogni situazione. Siamo già corsi al pronto soccorso per il primo ruzzolone dal letto, accolti dalla comprensione del pediatra, ben consapevole che la crescita dei nostri piccoli è costellata di una serie apparentemente senza fine di bernoccoli, cadute, escoriazioni, infortuni, più o meno lievi traumi da far impallidire un calciatore di Serie A. Nelle loro ginocchia, se avremo fatto bene il nostro mestiere, ci sarà una costellazione di graffi e cicatrici. Sì, cadiamo anche noi con loro, sperimentando una paura atavica e insidiosa che ci accompagna ogni istante, mentre fanno la break dance sul fasciatoio, mentre saltellano tra un risolino e una singhiozzata da premio Oscar.
«Ho capito che la caduta di mio figlio è una sfida più per me che per lui» scrive Marco Bisanti, cercando di raggiungere il grado più alto di fiducia per questi mammiferi di prossimità che stiamo cercando di rendere sempre più autonomi da noi. È un processo di apprendimento per tentativi ed errori in questo diventare genitori senza rete di sicurezza. Viva gli errori, viva le cadute! “Cadi sette volte, rialzati otto” come recita un proverbio giapponese. Lasciamo ai nostri figli tutta la forza vivificante degli errori che sono le lezioni più importanti, “Quando abbiamo cominciato a pretendere che il percorso dei nostri figli non sia condizionato da inciampi e cadute?” si chiede il nostro prof dal suo punto di osservazione privilegiato sulla scuola. Buona lettura!
Padri_e lettere
di Marco Bisanti
I bambini si rompono facilmente: avrei voluto usarlo io come titolo per un mio libro. Invece, è venuto in mente alla magica Silvia Vecchini (2023). Il repertorio delle fratture e delle cadute è da sempre terreno fertile per la semina metaforica. Sia quella poetica, come nel caso di Silvia, sia quella stancamente retorica: quanto siamo invasi oggi dalla paccottiglia motivazionale del “si cade per rialzarsi”! Da quando ho un figlio, però, ho sempre più la tendenza a spostarmi dal regime metaforico a quello ben più sorprendente e selvatico, primitivo, della fisicità: il regime corporale. Su questo fronte imparo tantissimo, quando passo dalla modalità educante (figlio mio, cadiamo per rialzarci) alla modalità di ascolto. Così ho capito che la caduta di mio figlio è una sfida più per me che per lui. Non solo perché i bambini coltivano le vertigini e hanno molta più famigliarità di noi con le cadute. Ma anche perché, sul regime corporeo, i bambini guariscono facilmente. Molto più in fretta dei grandi, come ho detto quest’estate a mio figlio dopo un consulto ortopedico quando si è rotto la clavicola. Da lì, in ogni momento precario, mentre lui fa quello che fa, la potenziale caduta è molto più impegnativa per me che per lui: devo lasciarlo fare, devo fidarmi come lui si fida di sé stesso. Senza proteggerlo. Devo riuscire a guardarlo credendo in lui, come non credo nemmeno nella mia capacità di trattenermi mentre lo guardo correre sul filo. I bambini si rompono facilmente, ma i bambini guariscono anche facilmente. Siamo noi che dobbiamo scalare montagne per fidarci un po’ più di loro. Ve lo siete mai chiesto: io mi fido di mio figlio?
Pennellate
di Marco Marincola
Sbagliando si impara. Non che ci sia molto altro da dire: si procede per tentativi, si sbaglia, si sbaglia ancora, e si continua a sbagliare fin quando non si trova il modo giusto.
Questo è ovviamente evidente guardando il proprio figlio crescere, ma sarebbe sbagliato non vedere che la stessa cosa capita a noi come genitori.
Fin dove devo farti sbagliare per imparare? Fino a che punto devo proteggerti e quando invece devo lasciarti andare?
Dov’è il giusto equilibrio fra il tenerti in una campana di vetro e il buttarti a mare per vedere se sei capace di non annegare?
Ogni risposta è unica per ogni rapporto genitore/figlio (il che vuol dire ovviamente che papà e mamma saranno in disaccordo e che entrambi si comporteranno in maniera diversa con due figli), mescolando all’occorrenza amore e fiducia.
Non si smette mai di imparare
di Alessandro Buttitta
A scuola, a causa della mia posizione di docente e vicepreside, parlo spesso con i genitori di studenti e studentesse. Il più delle volte la discussione verte sulle difficoltà relazionali che i ragazzi hanno in classe, in famiglia, nel gruppo dei pari.
E quando si parla di gruppo dei pari, la maggior parte delle questioni irrisolte riguarda chat whatsapp e indifferenza social. Ci sono dinamiche che i genitori non comprendono o, molto più probabilmente, decidono deliberatamente di non comprendere.
Diversi genitori si soffermano sull'incapacità del figlio o della figlia di trovare l'accettazione totale e incondizionata del resto dei compagni. Soffrono tantissimo per interposta persona. E non hanno paura di manifestare questo disagio. Quando ascolto questi genitori - talvolta disorientati, spesso insicuri, quasi sempre bisognosi di confronto - rifletto molto e mi pongo domande che forse, da padre e da docente, non mi dovrei porre.
Quando abbiamo iniziato a voler risolvere ogni situazione dei nostri figli? Quando abbiamo cominciato a pretendere che il percorso dei nostri figli non sia condizionato da inciampi e cadute? Quando è nata in noi l'esigenza di spianare loro sempre e comunque la strada?
Sembra che i ragazzi non debbano vivere esperienze negative. Sembra che abbiano bisogno di protezioni sempre e comunque. Sembra che debbano essere salvaguardati dalla realtà che li circonda. Sembra passare l'idea che noi genitori dobbiamo fare da scudo ad ogni situazione spiacevole.
Io ascolto, faccio le mie considerazioni, dico quel che il mio ruolo di educatore mi impone con la massima trasparenza e con la massima delicatezza possibili. Poi, tornato a casa, guardo Agnese e non riesco a distogliermi dallo sciame di pensieri e di domande che la realtà inevitabilmente porta con sé.