Così procediamo a fatica, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato
Il grande Gatsby
Quando ripenso alla Sicilia per me è sempre domenica, i ricordi hanno una densità diversa, tipica d’una fascinazione pericolosa, impantanarsi negli anni che furono è fin troppo facile, ricordo ancora dove mia madre teneva la moka, dove teneva lo zucchero e dove la soluzione Schoum, gialla come un canarino. La pendola del salotto segnava le ore con costanza e la luna sembrava una caciotta gonfia e madida, pronta per essere affettata col pane buono di paese, quando ancora i fornai si svegliavano alle tre per impastare i filoni con il sesamo. Mi ricordo sempre quelle domeniche con mio padre che preparava la brace per la carne comprata alla “carnezzeria” del signor Casa. Negli anni avevo guadagnato il diritto ad andare a prendere il pane al forno del signor Vella, subito dopo aver ritirato le paste ordinate al bar Carmelo…
Di tutto questo Federico avrà soltanto una lontana eco, ci saranno altre abitudini che si stanno già radicando, come impastare la pizza e cucinarla con la macchinetta il sabato sera, cantando quelle stesse canzoni che lui ascolta da quando era solo un ricciolo di carne in sua madre. La pizza la cuciniamo con quella macchinetta che ho regalato a mia moglie per il suo primo onomastico qui a casa nostra. Me ne aveva parlato come un oggetto della sua memoria e avevo deciso di regalargliela proprio per dare seguito a una sua tradizione. Quanto abbiamo messo dentro quelle valigie io e mia moglie quasi tre lustri fa? Cosa abbiamo sacrificato con quel biglietto di sola andata? La scorsa settimana ne ho parlato con gli altri papà di Padri in formazione, tre di noi sono emigrati per motivi così diversi e così simili, per trovare il nostro posto nel mondo. Qui, dove lo abbiamo trovato, sono nati i nostri figli, con codici fiscali diversi dai nostri, il mio è un piccolo milanese, la piccola Adele è nata nella Capitale. Chissà se anche loro capiranno il siciliano ma non lo sapranno parlare, come è successo ai miei cugini. Per me Milano tanti anni fa è stata una scelta quasi obbligata, qui mio padre aveva una parte della sua famiglia e quando veniva a trovare i suoi fratelli mi portava sempre un pupazzetto dei masters, magnificando gli ipermercati che aveva visitato nella grande città. Ora ci sono più giovanissimi Pintacuda qui che giù nella nostra isola. Corsi e ricorsi storici, senza scivolare nella stantia narrazione dell’isola e dei suoi atavici mali, come ha evitato di fare il nostro prof. Buttitta. Ha ragione il nostro Bisanti, stiamo ancora danzando sulla musica che hanno iniziato a suonare i nostri padri, siamo ancora in quel sorriso.
Padri_e lettere
di Marco Bisanti
Abito a Roma da quasi quindici anni. L’altro giorno camminavo pensando: ormai si può dire che sono stato piccolo anche qui. I miei due figli sono nati su un’isola. Quella di Arturo si chiama Sicilia, quella di Adele si chiama Tiberina. Mi faceva impressione l’idea di sentirli parlare, in futuro, un accento che non è il mio né quello di mia moglie, entrambi accordati alla cadenza palermitana. Quando l’altro giorno, per la prima volta lui si è stupito di qualcosa dicendo “ammazza!” l’ho comunque amato più di sempre. La lingua dei nostri figli sono i nostri comportamenti, la lingua dei nostri figli è l’amore che gli sorride ogni giorno, o non gli sorride. Non so se io e mia moglie apparteniamo alla categoria degli iniziatori o dei continuatori. I miei genitori, per esempio, li inserisco tra quelli che hanno con fatica e dedizione continuato l’opera dei loro genitori, abitando gli stessi luoghi tanto amati e seguendone la carriera nello stesso posto: radici forti. Io e mia moglie, la realtà direbbe che siamo automaticamente inseriti nella categoria degli iniziatori, quasi costretti all’impresa dei patriarchi. Abbiamo aperto una strada a Roma che prima non c’era. Se i nostri figli si guarderanno indietro potranno al massimo scrutare l’orizzonte sul mare, verso la Sicilia. Ma il tempo li ha messi in un altro luogo, dove l’isola sta in mezzo al fiume di Eraclito. E tutto cambia, tutto si guarda da fuori, pur essendo al centro della bufera. La verità è che – succede spesso – finora ho parlato di una finta opposizione. Possiamo nascere nella terra dei genitori o altrove, portati dal vento di una ricerca che precede la nostra nascita. La verità che non cambia, anche volendo, è che noi siamo l’eterno dei padri. Siamo la risonanza incessante della musica che hanno generato nella vita – ovunque andremo. Siamo la loro camminata ancora sul marciapiede. Il sorriso rimasto davanti allo specchio.
Non si smette mai di imparare
di Alessandro Buttitta
Essere all’altezza delle proprie idee è complicato. Ci sono le contingenze della realtà a mettersi di traverso; ci sono le nostre scelte che richiedono il loro tributo quotidiano. Qualche pomeriggio fa, al pari di una foglia scossa da una folata improvvisa di scirocco, mi sono chiesto per chi fossero realmente i sacrifici che penso di compiere ogni giorno.
Per il territorio in cui vivo? Per la mia famiglia? Per la mia vanità? Per il mio orgoglio? Per le mie idee in materia di istruzione ed educazione? Ho deciso di vivere di scuola, di essere un uomo di scuola, nonostante le difficoltà e le amarezze alle quali si va inevitabilmente incontro. Non bastano certamente alcuni squarci di luce per cacciare via le ombre.
La tentazione di ricondurre tutto alla letteratura – già stavo per cominciare con la tiritera dei siciliani di mare e dei siciliani di scoglio – è sempre alta. La freddezza di un codice fiscale riequilibra ogni pretesa. Non è difficile essere siciliani in Sicilia, in questa Sicilia che sicuramente non è più quella dei nostri padri o dei nostri nonni, in questa Sicilia che forse malgrado tutto è migliore di quella in cui siamo cresciuti. Credo sia molto più difficile consegnare a mia figlia un’identità e delle radici da preservare, farla crescere in una comunità che ho l’ambizione, nel mio piccolo, di migliorare.
Sono queste le scelte su cui, da padre, mi arrovello. Se avrò fatto bene, se sono stato all’altezza delle mie convinzioni, lo potrà dire solamente Agnese. Lo dirà un domani che al momento, per mia fortuna, mi sembra molto lontano.
Ho tagliato bambù:
per te, figlio mio.
Ho vissuto.
Codesta, che domani sarà
altrove, capanna, ora
regge.
Non diedi mano a costruirla: tu
non sai in quali
vasi io misi, anni addietro,
la sabbia che mi stava intorno,
per ordine e decreto. La tua
nasce libera – libera
rimane.
La canna, che prende piede qui, domani
s’innalza pur sempre, ovunque
l’anima ti possa spingere fuori
d’ogni vincolo