Già tredici anni fa, nel primissimo dicembre qui in Lombardia, lo sfincione di Bagheria, la mia città d’origine, aveva assunto i contorni mitici di un cibo della memoria. Ancora oggi ne sento le diverse consistenze, il pangrattato imbevuto d’olio, la “tuma”, le acciughe, le cipolle bianche. Il nostro Natale iniziava la sera dell’Immacolata con l’odore di sfincione che riempiva le viuzze su cui si affacciano i forni. Lì si va a cucinare il proprio, preparato a casa con ricette tramandate di generazione in generazione.
I regali di Natale sono cose moderne, buoni per i picciriddi. Da noi in quell’angolo di Sicilia si scambiano sfincioni. Amare nella mia piccola città eterna è donare sfincioni, io ancora ricordo quelli che arrivavano a casa, lasciati rigorosamente dai mariti. Le donne cucinano con arte e passione, i mariti fanno i fattorini di sfincioni, come tanti babbi natale che odorano di olio, cipolle e acciughe per intere settimane.
Lo sfincione è da mangiare per giorni, l’olio pian piano trapana e si volatilizza conservando soffice la pasta e le ‘conse’, i condimenti. Lo sfincione sta lì, ti aspetta, come spezzafame o cena veloce prima delle mangiatone che ci aspettano al varco. Con mio padre ci guardavamo con sguardo complice, pregustando mentre spaccavamo legna per la stufa di scaldarlo appena appena sulla piastra, lento lento, per non asciugarlo troppo. Era il segno che il Natale era iniziato, che tutte le difficoltà dell’anno venivano addolcite dalla tredicesima, stiracchiata un po’ di più, che un altro anno andava dritto dritto nei ricordi.
Questo Natale, son stato proprio bravo rubicondo San Nicola, portami la spensieratezza che avevo quando andavo sulla BMX e mi sentivo il re del mondo, felice di una fetta di sfincione da gustare davanti all’ennesima replica del Piccolo Lord o di Mamma ho perso l’aereo. In quei pomeriggi infiniti a consumare la cassetta di “Baby Christmas Dance” dei Cavalieri del Re. Con Papà sullo sfondo a prolungare la vita di un vecchio elettrodomestico e la mamma a impastare la torta al cioccolato seguendo la ricetta della sua amica americana, con mia sorella che mi chiama per superare qualche labirinto di Kid Icarus sul vecchio Nintendo. Chissà quali saranno i ricordi più lontani del nostro piccolo di casa, sempre in bilico tra due mondi. Nel dubbio, con gli ingredienti che sua nonna ha mandato da giù, ho già in mente di infornare uno sfincione anche qui.
Abbiamo deciso di dedicare questo primo numero di dicembre al Natale, un Natale fatto di sensazioni e percezioni, in bilico tra ieri e oggi, perché essere padri ha richiamato dai nostri verdi anni quei ricordi che s’erano assopiti davanti al calore letargico del camino. Perché oggi il 25 dicembre è soprattutto l’“occasione per misurare la vita che cresce”.
C’è chi rilegge Dickens come Marco, Zak che ci fa assistere a un siparietto familiare nella battaglia eterna fra cugini piccoli e grandi, il prof Buttitta che ritorna il bambino che aspetta che la madre finisca il turno di guardia in ospedale e chi, come me, del Natale ricorda soprattutto il sapore e gli odori. Buona lettura!
Padri_e lettere
di Marco Bisanti
Pochi giorni di vita ancora feriale e busseranno i fantasmi del passato e del presente e del futuro. Marley trascinerà dietro la porta le catene che lo attorcono allo strazio del rimorso. Viene a dirlo una sola volta: il Natale ti guarderà dentro parlando da una bocca gigante che fa la tua voce, ascoltalo e sarai vivo di nuovo. Tu hai paura ma non gli credi, puah!, spegni il moccolo di lato al cuscino e un buio arcigno ti rimbocca le lenzuola. Poi è la notte a cambiare forma. Ora voli sui tetti della vecchia città e dalla finestra ti vedi sgusciare tra le ginocchia dei nonni, la notte dei doni, via di nascosto ai piedi dell’albero allumato accanto al pianoforte; ora cammini per la città di stamattina e ti scopri senza più gambe da evitare, sono gli altri che si aprono come ali del mar Rosso per gli aculei del tuo guscio inossidabile; ora alberghi tra le croci dietro l’angolo, gli addetti alla pala commentano la solitudine di una cassa col tuo nome sopra, senza neanche merli sui cipressi per la grazia di un ultimo canto. Ormai è quasi giorno, l’alba a due passi. Avessi davanti almeno uno dei tuoi cari, gli urleresti dall’altra riva quante cose hai sbagliato. Mi dispiace di tutto, credimi, non lo rifarei, ora capisco. Posso starti accanto di nuovo? Pochi giorni di vita ancora feriale e si sentirà la risposta, sarà il mattino più azzurro.
Pennellate
di Marco Zak
I miei tentativi di essere il miglior papà possibile per i miei figli sono passati sempre dall’essere sincero con loro. Era ammesso il “adesso no, te lo spiegherò quando sarai più grande”, ma ho sempre cercato di far avere a ogni parola che dicevo loro una affidabilità assoluta. Un sola bugia era ammessa: Babbo Natale.
Potremmo parlare a lungo sulle conseguenze psicologiche e pedagogiche del delegare a una terza parte il verdetto sulla bontà o meno del comportamento, e della validazione di questo giudizio attraverso doni materiali, ma a tutti piace questa pantomima. Ai bambini piace crederci, e ai grandi (in genere) piace reggere il gioco.
Il dramma arriva in quel momento in cui arrivano cugini, fratellini e la linea dei pargoli si allunga a comprendere sia quelli che ancora ci credono (e ok), sia quelli che non ci credono più (e ok anche loro, tanto vengono cooptati nella recita), sia quelli che subodorano qualcosa.
Il dramma arriva quando questi ultimi, a cui ancora non hai potuto dire “ok bravo, ma per favore taci ché tuo fratello ci crede ancora”, danno sfoggio a tutta la loro innata dote di investigatore.
A nulla valgono la barba posticcia, la protesi al naso, il cuscino sulla pancia, il vocione stentoreo nel fare “Oh, oh, oh!”. Arriverà il momento in lo zio, poco prima scomparso con la scusa di andare al bagno, rientrerà così conciato dal terrazzo di fronte a tutto il consesso di famiglia e con il letterale sacco di regali solo per essere accolto dal nipote di 5 anni che si alzerà, lo fisserà ed esclamerà (rivolto agli altri, guardandoli con la pietà riservata a quelli che proprio non ci arrivano) “ma è Giovanni!”.
Non si smette mai di imparare
di Alessandro Buttitta
Del Natale da piccolo piccolo ricordo solamente i pranzi in ristretta compagnia, con lunghi pomeriggi di attesa. Tutto ruotava attorno ai turni di mia madre in guardia medica o al pronto soccorso. Non sono state poche le fette di panettone mangiate in stanzette anguste, con un televisore perennemente sintonizzato su Rai Uno. Non ricordo particolari regali. Li avrò ricevuti sicuramente, ma li ho dimenticati. Ingratitudine della memoria. Ricordo vividamente però mio padre che accompagna me e mia sorella al cinema nel primo spettacolo pomeridiano per vedere il film Disney appena uscito.
Oggi, da papà, è tutto diverso. Da quando è nata Agnese il Natale ha assunto nuovi significati, complice anche l’entusiasmo di mia moglie Margherita per gli addobbi di casa e non solo. Ho soprattutto nuovi occhi: la festa del 25 dicembre è diventata l’occasione per misurare la vita che cresce, il tempo che passa, la ricchezza della nostra esistenza insieme.