«Sono in camera da solo. Mi trovo dall’altra parte del mondo. Alla tv stanno trasmettendo un video musicale. La voce di Luther Vandross canta Dance With My Father, ascolto le parole del brano e, senza volerlo, mi ritrovo in lacrime. Sto piangendo e, credetemi, è una cosa che mi accade di rado. Provo una nostalgia terribile. Un bisogno forte e intenso di qualcosa che avrebbe potuto essere, ma non c’è mai stato nella mia vita. Le parole di questa canzone mi stanno facendo immaginare come avrebbe potuto essere il mio papà con me. Un papà capace di prendermi in braccio e di farmi ballare. Magari insieme a mamma. Stretti tutti e tre in una sorta di «cerchio magico».
Io questa esperienza l’ho vissuta nella mia vita. Non da figlio, ma da padre. Più volte mi sono trovato a tenere in braccio uno dei miei quattro figli e a ballare con lui/lei, mentre una musica ci accompagnava in sottofondo. Ci è capitato anche di ballare in tre: io, Barbara (la mia compagna di vita) e uno dei nostri figli. Proprio come racconta Vandross nella sua canzone. Ho chiaro in mente quanta felicità procuri nella vita di una persona saper vivere con così tanta intimità e coinvolgimento emotivo le relazioni con le persone che ti sono più care e vicine.
Invece quella felicità non l’ho potuta sperimentare quando ero figlio. E non perché, come è successo a Luther Vandross, mio padre è scomparso dalla mia vita quando ero bambino. Mentre sto scrivendo le prime pagine di questo libro, mio padre è vivo e, pur con tutti i suoi acciacchi, relativamente in forma. Vive leggendo notizie e libri. Invece, le emozioni per lui sono cose di poca importanza. Credo che se ne difenda: inconsapevolmente, ma con una potenza incredibile. E se le emozioni le metti da parte, la vita diventa azione, ma quasi mai si trasforma in relazione. Proprio quel genere di relazione la cui bellezza è cantata nel testo di Dance With My Father: una danza che io non ho mai conosciuto.
Osservando mio padre, ora che sono adulto, mi sono spesso chiesto perché mai lui – e con lui una enorme quantità di uomini divenuti padri – non ha voluto vivere momenti così con me quando ero bambino. E perché il bambino che c’è in me, nel momento in cui ascoltavo per la prima volta la canzone di Vandross e guardavo quel video musicale, si risvegliava a tal punto da farmi piangere, inondandomi di una tristezza infinita.
Ancora non lo sapevo, ma quel pomeriggio in cui – solo in un albergo di Atlanta – ascoltavo Luther Vandross, cominciava un dialogo con me stesso e un bisogno di approfondire le questioni che affronto in questo libro. Che forse ha cominciato, dentro di me, a essere scritto proprio quel giorno e ha avuto la sua origine da un’emozione bella e dolorosa al tempo stesso: un’emozione per me difficile da decifrare».
Questo è il quarto numero della newsletter Padri in formazione, ogni domenica alle 10:00 quattro spunti e mezzo per “papà nuovi”. L’abbiamo creata per riflettere sul nostro ruolo di padre che, inevitabilmente, ci fa ripensare a che figli siamo stati.
Nasceva tutto dalla difficoltà di scovare notizie dedicate esplicitamente al ruolo dei nuovi papà, alle loro difficoltà, così diffuse e però celate dal cono d’ombra in cui ci hanno confinato. Quando nasce un bambino o una bambina, nascono anche una mamma e un papà. L’ha scritto e descritto in maniera meravigliosa Alberto Pellai nel suo Da uomo a padre, da cui è tratta anche l’introduzione di questo nuovo numero:
«Mentre la maternità è stata descritta, analizzata e studiata in tutti i modi possibili e immaginabili, dei padri oggi si sa poco. In alcuni casi addirittura niente. Noi uomini manchiamo di un’analisi profonda che racconti i nostri moti del cuore e dell’animo e che descriva le nostre trasformazioni profonde, interiori, emotive e cognitive in relazione ai passaggi chiave della nostra vita. Che cosa succede nella mente di un uomo, quando diventa padre? Quali trasformazioni devono accompagnare il passaggio da uomo a padre? Come la cultura maschile, il modo di stare insieme e di comunicare degli uomini può aprirsi all’esperienza della paternità, rendendola un elemento su cui fondare ruolo e identità di genere? E come un uomo di fronte alla prospettiva della propria paternità deve imparare a rivedere e a ri-narrare a se stesso la sua storia di figlio, di maschio, di compagno di vita, alla luce dell’esperienza che ha vissuto a fianco di altri figli, maschi, padri, compagni di vita?»
Padri_e lettere
a cura di Marco Bisanti
Oggi il tizio disse che tutti concordano sul fatto che Giuseppe morì prima che iniziasse la vita pubblica del figlio, non potendo così vedere i segni che finalmente avrebbero dato ragione alle parole dell'angelo che nel sogno lo dissuase dal ripudiare in segreto la sposa che aspettava un bambino non suo. Quest'uomo di cui nessun racconto canonico riporta un filo di voce, una parola detta, un virgolettato, di cui si ricorda solo il mestiere e l'età avanzata, e che muore prima di ogni conferma sulla bontà della fiducia riposta decenni prima in un sogno, Giuseppe insomma, disse oggi il tizio, è per noi un esempio di questo questo e quest'altro che manco ricordo più. Qualunque cosa fosse però, con tutto il suo catechismo, il tizio oggi non sapeva che al padre muto, per accettare il suo destino, bastarono già momenti come quello in cui, a due anni e mezzo, suo figlio giocò a lungo dopo cena con le bucce dei mandarini, a spezzarle schiacciarle e metterle nelle sue mani legnose ridendo con tutto il corpo minuscolo, dagli occhi luminosi alle gambe penzoloni sulla sedia, mentre in cucina si spandeva l'odore di tutti i giardini del mondo.
Papà al cinema
a cura di Marco “Zak” Marincola
Parlando di paternità, c’è il leggerissimo dettaglio che il diventare padre prevede il necessario coinvolgimento di un’altra persona.
Un uomo non può fare finta che il diventare genitore non passi da un relazionarsi; non si può essere padri senza mettere nell’equazione la futura mamma.
Non mi vengono in mente molti film che raccontino bene questa esperienza; dopotutto la gravidanza è qualcosa di tipicamente femminile, e declinarla al maschile è pericolosissimo: si corre infatti il rischio di concentrarsi sul nascituro e ridurre la madre al ruolo di incubatrice, mentre il punto interessante è il rapporto con una persona che avrà un ruolo chiave in un evento che cambierà la nostra vita.
Uno di questi film, forse il principale, è Wall•E.
Film densissimo (una vera e propria lezione di narrazione cinematografica), Wall•E parla soprattutto del rapporto di una figura maschile con una figura femminile che sta contenendo una vita.
Il protagonista conosce la sua bella: bellissima, concentrata sul suo ruolo, e che sembra non avere bisogno di lui. Eppure il suo ruolo “materno” non potrà essere compiuto senza di lui.
Già qui direi che come metafora siamo messi bene, ma il film va oltre. La figura maschile che Wall•E propone è interessante: è un compagno premuroso, che non si illude di poter “possedere” o controllare la sua compagna. Non ha però paura di condividere con lei il bello, né di mettersi in gioco per lei e prendersene cura nel momento in cui la vede vulnerabile.
Wall•E è spiazzato da quello che succede a Eve, ma le sta accanto, fino addirittura a lasciare il proprio mondo e seguirla in qualcosa a lui totalmente alieno, nonostante lei lo ignori e sostanzialmente lo ritenga incapace di capire. Lui persevera, e persevera per amore di lei, non per altro. Cerca di aiutarla e, nel momento in cui è lui a essere in difficoltà, spiega a Eve che non deve rinunciare alla sua missione per salvarlo, ma che sarà proprio quella la strada da percorrere per il bene di entrambi.
Praticamente il pacchetto completo.
Non si smette mai di imparare
a cura di Alessandro Buttitta
Essere padre ti porta inevitabilmente a cercare figure di riferimento. Dunque, a ben pensarci, anche la visione di cartoni animati può essere utile alla causa. Dopo tanto girovagare, dopo aver ammirato il pazientissimo Flop di “Bing” e aver apprezzato con più consapevolezza il Barbapapà dell’omonima serie, ho trovato un modello di sicuro affidamento in Bandit di “Bluey”.
Si tratta di un padre amorevole, giocoso, ironico, sempre fantasioso, capace di dedicare il suo tempo alle due figlie con una dedizione e un’inventiva incredibili. Mi piace soprattutto perché non asseconda mai le bizze o le richieste delle figlie: le provoca, costruisce il loro percorso con sfide mai banali; dà ad entrambe l’occasione di agire e riflettere sulle loro azioni senza mai essere invadente.
Su TikTok, a quanto pare, c’è una community attivissima di fan di “Bluey”. Ho scoperto persino di zii e zie che decidono di rimanere coi nipotini per vedere senza problemi le avventure di questa famiglia di cani antropomorfi. Due articoli del New York Times e del Guardian ne tessono lodi con punti di vista parecchio interessanti. Si tratta, del resto, di un cartone animato molto intelligente, con un’ironia e uno sguardo sui temi della paternità decisamente originali. Vedere per credere.