Quand’è esattamente che anche noi ci siamo fatti prendere dall’ansia di prestazione, persino nella paternità? Come se fosse arrivato anche qui un piccolo e furente Elon Musk a chiedere perentoriamente un “report” delle attività svolte, per valutare la posizione occupata e dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio ed entro i termini indicati, la nostra produttività.
C’è tutto uno scoppiettante filone narrativo dedicato ai nuovi papà – di cui anche noi siamo parte – che sta prendendo sempre più piede. Se gli assunti di partenza erano più che sacrosanti, ora si sta ingaggiando un’esplicita gara a chi è il papà più presente, a chi cambia più pannolini prima di essere sopraffatto dal loro contenuto, a chi è il caregiver più attento. C’è una maggiore consapevolezza, che però non dovrebbe andare di pari passo con questa corsa agli armamenti che sembra aver investito l’altra metà della coppia genitoriale.
Recuperando quello che fu un libro manifesto al principio degli anni ’10 del 2000, è tempo di rallentare, assaporare di nuovo ogni momento senza preoccuparsi delle implicazioni sociali del nostro agire. Io stesso mi sono scontrato con stereotipi di genere così anchilosati dall’abitudine da diventare stucchevoli, ma gli estremismi opposti sono sempre da evitare.
Quindi sì, continuiamo ad essere padri fallibili, imperfetti, in formazione, come sempre ci siamo definiti sin dal primissimo numero di questa newsletter. E se i nuovi guru della paternità che cavalcano l’onda ci lasciano perplessi, anche noi lasciamo andare tutti questi pensieri, su, sempre più su, oltre le antenne e gli aquiloni, certi che il tempo di qualità con i nostri piccoli sia la migliore parte della giornata.
Qualcosa si è mosso in questi due anni. Piccole cose che fanno ben sperare. Come il fatto che ci sia finalmente il fasciatoio anche nei bagni degli uomini dell’Ikea di Carugate: per me, in trepidante attesa dell’imminente spannolinamento del piccolo di casa, è una gran bella e comoda novità.
L’altro giorno ero con mia moglie all’open day della materna, uno di quei pomeriggi al cardiopalma che qui assumono sempre il risvolto narrativo di una visita guidata in modalità Tecnocasa. La maestra-agente immobiliare, in grande spolvero, ti glorifica le meraviglie della nuova scuola: sono tutte lì, hanno tirato a lucido ogni singolo giocattolo della struttura.
Veniamo accolti insieme all’inferocita orda classe 2022, lì in mezzo a quattro scivoli dalle fogge più irresistibili: un castello con le torri merlate, il ponte di una nave pirata, un rifugio in montagna e una scadente imitazione del villaggio dei Puffi.
Questa è solo l’anticamera. Poi c’è già una sala dove le mamme volteggiano chiedendo lumi e delucidazioni ad almeno sei mesi dalla prima campanella, in quel fragile equilibrio tra il caldo abbraccio dell’esoso micronido e la materna.
Io penso a quando spegnerò la retta, quella seconda rata del mutuo a tutti gli effetti che ci tiene compagnia. Penso che rimetterò le chiavi della Ford al chiodo, non dovrò più cercare parcheggio ogni mattina inseguendo la geometria astrale del lavaggio strade. La materna è praticamente un prolungamento del parco condominiale. Ora le spese condominiali hanno un gusto dolceamaro di vittoria.
Penso già a recuperare il mio siculo lignaggio e preparare un “panaro” da usare per depositare direttamente il pargolo dal settimo piano al cortile della scuola.
Sogno già ad occhi aperti, felice di lasciarmi alle spalle il terrore nero di scordarmi mio figlio nel seggiolino, vinto dalla stanchezza. Chiunque sia stato incaricato di portare il piccolo al nido sa bene a cosa mi riferisco, mettetevi nei miei panni, che già controllo una mezza dozzina di volte se ho chiuso casa, il gas e l’acqua. Non l’ho mai presa sottogamba, quella paura.
Quindi ora la gioia di portarlo mano manuzza lì sarà un piacere che già mi pregusto come la finta panna della Coppa Malù.
Mentre penso tutto questo, controllando che tutto vada bene e che mio figlio non si sia già sfracellato da uno degli scivoli, lo vedo prima correre verso una vasca ricolma di farina gialla – che mi ritroverò per settimane a casa – poi sterza festante verso la “palestra”.
Ecco, ha intravisto la vasca delle palline. Vede i suoi coetanei e futuri compagni di bisboccine, ovviamente i più scavezzacollo. Non ho afferrato i nomi, per me sono già Mickey Occhi Blu e Mamma Ho Perso il Ciuccio.
Si buttano uno dopo l’altro in quella vasca colma di germi e palline. Mia moglie ascolta le indicazioni pratiche, tipo come funzionerà l’educazione siberiana dell’ambientamento, incluso il terrore psicologico imposto dallo spannolinamento obbligatorio.
Vedo l’orrore negli occhi dei genitori della coppia di gemellini che hanno monopolizzato l’area giochi. Un’estate per vincere la guerra con i Pampers, moltiplicata per due. L’orrore!
A fatica, dopo vari tuffi, riesco a riacchiappare il piccolo di casa, che si è goduto ogni frangente di quell’open day. Mio figlio, di solito dolce e obbediente solo entro i confini di casa nostra, appena messo il piedino fuori dalla porta si ricorda di avere i terribili due anni come assoluzione di ogni suo presente, passato e futuro peccato. Dà la sua migliore interpretazione di bimbo disperato, strappato alle gioie della vita dal suo perfido padre, lo stesso che due giorni prima ha tentato di tagliargli le scimitarre che stavano diventando le sue unghie dei piedi.
Sì, maestre, eccomi: sono un padre orribile, che vuole rimettere le scarpe di Simba a suo figlio, il quale già smocciola e inizia a sanguinare dal naso dopo l’ennesimo tuffo in quella vasca di palline.
Mi ci gioco la futura pensione di mio figlio che quelle palline sono fumo negli occhi tirate fuori solo per gli open day e che, nella quotidianità, quella stanza la chiuderanno a doppia mandata. Come la stanza di Barbablù.
La nostra newsletter spegne questa settimana le sue prime due candeline… Sono stati anni intensi, pieni di riflessioni, risate, dubbi e piccole grandi conquiste condivise. Tanti auguri a noi, ma soprattutto a questa meravigliosa community che ha reso il viaggio così speciale.
Senza fretta
di Marco Bisanti
Nel giardino dell’asilo di Arturo, venerdì i rami erano spogli, quattro giorni dopo tutti vestiti di bianco. Martedì l’ho accompagnato e prima di uscire mi sono fermato a fotografare questo albero. In giornata ho fatto tante cose. Poi sono andato a prenderlo e l'albero mi ha fermato di nuovo, stavolta prima che facessi capolino per fargli salutare la maestra.
Ho creato una specie di ingorgo di genitori per chiedere se sapevano che albero è, dopo averne ribadito la bellezza. Un prugno, un ciliegio, un mandorlo. Ognuno diceva la sua ma, nel fare ipotesi, erano comunque tutti già presi dal semplice stupore di trovarsi a parlare di questa cosa. Sono andato a chiamare Arturo. Passando davanti all’albero gli ho detto vedi quant’è bello, ma quand’è che sono spuntati i fiori? Buh, ha detto. Meraviglia dell’età che trova inutile ricordare.
Nel pomeriggio siamo stati a casa tutti e tre, io lui e la sorellina. Comprare il succo, entrare in casa, fare merenda, sentire musica, ballare, giocare, preparare la cena. Sono felice di esserci stato per loro, avendone il tempo - ovvio, - senza ricorrere a mediatori digitali o badanti retroilluminati. E loro sono stati bravissimi: nessuna monelleria, nessun dispetto, nessun lamento.
Sono contento pure che alla soglia dei cinque anni, lui abbia ancora un solo appuntamento extra-scolastico settimanale. Mi hanno sempre colpito le agende fitte dei bambini di oggi: crinali rischiosi tra secondamento dei loro talenti e predestinazione all’ansia da performance, talismani per il genitore odierno che trema al pensiero che i figli si annoino. ‘Colleghi’, la noia rende intelligenti!
Ora sono distrutto però. Sono le undici passate, Adele si è fatta posare nel lettino dalla madre solo qualche minuto fa. Arturo l’ha tirata per le lunghe anche lui. Ma alla fine ripenso ancora all’albero, rivedo la foto scattata stamattina. È stata la cornice di tutto il mio cielo odierno, ora che ci penso. Forse, oggi io sono stata la cornice dei miei bambini. Il loro cielo sta crescendo, i miei fiori sono bianchi. Fra poco è primavera.
Non si smette mai d’imparare
di Alessandro Buttitta
La stragrande maggioranza dei padri italiani desidera un ruolo più attivo nella vita familiare, secondo i dati raccolti da un’indagine di Me First in collaborazione con LabCom. Eppure, i numeri raccontano una realtà diversa. Solo una piccola parte di loro, il 7,2%, riesce a passare più di 50 ore settimanali con i figli. Le madri, al contrario, raggiungono cifre più alte: il 32,1%. C'è uno scarto notevole tra le aspirazioni e la realtà. Forse la colpa è di un sistema che prevede solo dieci giorni di congedo parentale? Ipotesi più che azzardata. Con maggiore probabilità, si tratta il retaggio di una cultura che ancora oggi tende ad assegnare alle madri il peso maggiore della cura dei figli. O forse – questo l’indagine non lo dice – il lavoro si trasforma talvolta in un alibi per fuggire dalle responsabilità familiari.
A ogni modo, le conseguenze di questa situazione sono pesanti. I padri consultati dall’indagine si dicono stressati, insoddisfatti, con quasi il 66% di loro che sperimenta livelli medio-alti di esaurimento emotivo e burnout. Oltre il 75% non si sente realizzato, inoltre, dal punto di vista professionale. Le aziende, poi, non offrono spesso un sostegno adeguato. L'81,7% dei padri desidererebbe un supporto aziendale per il proprio ruolo genitoriale, ma solo il 31,1% lo riceve. Il Ministero del Lavoro, infine, dichiara con la freddezza dei dati che soltanto il 28% delle aziende italiane ha attuato misure concrete per supportare la genitorialità.
Ne deriva che molti padri vorrebbero essere protagonisti nella vita dei figli. Si ritrovano, invece, a recitare un ruolo secondario, volenti o nolenti. Le considerazioni a margine dell’indagine non possono che essere parziali. C’è da chiedersi come, a casa, da padri spendiamo le ore insieme ai nostri figli. C’è da domandarsi soprattutto se riusciamo a evitare il passaggio degli umori lavorativi tra le mura domestiche. Nel dubbio, meglio ascoltare una canzone a tema dello Zecchino d’oro. Lì, tra le sue strofe, ritroviamo l’autentico spirito di questi tempi malandati.
Pennellate
di Marco Zak