Avrò avuto quattro o cinque anni e già mia madre, illuminatissima pedagoga nella vita in società e scagliatrice di ciabatte nel meriggio, aveva oracoleggiato che il dolore di cuore che le stavo infliggendo l’avrei capito soltanto quando sarei stato padre anch’io.
Non mi ricordo proprio quale peccato mortale avessi compiuto allora. Tra i ricordi che ho saldi nella memoria, quello lì manca, perché, come incisioni aere perennius, in pole position c’è mio padre che mi realizza un colbacco con il piatto di lenticchie rifiutato per l’ennesima volta. Soluzioni spicciole a problemi reali che oggi lo farebbero crocifiggere in piazza Duomo, inchiodandolo per bene su una croce realizzata con giochi montessoriani in legno da foreste certificate.
Ma l’ansia da genitore, equamente distribuita tra madri e padri, inizia ancora prima che il frutto d’amore emetta il suo primo vagito. Mi ricordo bene di non aver più guardato con gli stessi occhi l’innocente lattuga quando, ai primi tempi della gravidanza, lavavo tutto con quintalate di bicarbonato prima di preparare il pranzo a mia moglie e al suo pancione. L’insalata era diventata la losca lattuga, tra le cui verdi innervature si nascondevano insidie mai provate. Il prosciutto doveva essere rigorosamente cotto, perché su quello crudo c’era una banda di gatti che tossicchiava dal culo spore di toxoplasmosi.
Una vita trasformata in un incubo, con le mani costantemente lavate e rilavate con antibatterici che, per coerenza, erano stati garantiti dalla stessa farmacista che ci aveva venduto il test di gravidanza. E tra una strofinata e l’altra, non risparmiavo una generosa spennellata di Amuchina, che non se ne consumava tanta dai tempi del Covid.
Durante la gravidanza non ce ne siamo schivati una. Mia moglie, che non aveva mai preso la malattia nel periodo acuto della pandemia, si ritrovò positiva proprio nei primi mesi della gravidanza. Eravamo negli ultimi rantoli dell’ombra lunga della pandemia, con un’empaticissima dottoressa che ci disse semplicemente che la natura avrebbe fatto il suo sporco lavoro e non c’era nient’altro che potessimo fare se non aspettare.
Che poi, con gli occhi di oggi, aveva dannatamente ragione.
Per scampare all’ansia strisciante che ti avvolge come una cappa dopo che diventi genitore, puoi solo attendere che la burrasca passi. “Abbassati, giunco, che passa la piena”, dicono i vecchi saggi della mia isola natia. Una versione ben più digeribile di quell’arciparola con cui ci siamo fronteggiati quotidianamente negli ultimi anni sino a rendercela una stucchevole estranea: resilienza.
Ci ripensavo lo scorso sabato mentre ero a pranzo nell’anticamera dell’inferno, una di quelle pizzerie di una nota catena in cui hanno saggiamente abbinato tubi di litri di birra ambrata per i genitori e svalangate di cibo fritto a quell’irresistibile gabbia genialmente chiamata “area giochi”.
Ero lì che sorvegliavo il piccolo di casa, ancora fuori target per essere già fagocitato dal percorso di sopravvivenza e, per questo, confinato a un più salubre scivolo. Ero lì, unico padre in una selva di madri urlanti.
E l’amica di famiglia si avvicina con fare ironico, mi guarda, con le mie calze di Homer Simpson ai piedi, lì, prigioniero dell’area giochi, a sorvegliare in modalità avvoltoio mio figlio, e mi dice semplicemente: “Ma non ero io quella ansiosa?”.
E su quell’interrogativo vi auguro buona lettura!
Vi invitiamo a partecipare al questionario di QUID+
proprio dedicato all’ansia nei bambini, lo trovate qui
Un amore indicibile alla deriva
di Marco Bisanti
A volte io non sono il padre di mio figlio, a volte sono un’altra persona. Una qualunque, che si infuria, che non lo protegge dalla propria guerra e lo investe di soprassalto con tutta l'estraneità di un rottame in volo su un paesaggio ancora immacolato.
Sono il coltello che accosta sulla sua pelle la lama delle mie frustrazioni indigeste. Sono il rombo di una artiglieria che esplode crivellando fino all'ultimo recesso di ogni suo rifugio. Perché ero io quel rifugio, io il sole sul paesaggio immacolato, io il padre. E lo porto davanti all’altra faccia della luna coi denti affilati dei mannari, nel bosco da cui in futuro non potrà mai più tornare lo stesso di prima. Ma si scoprirà solo, abitato come era suo padre da una guerra incessante, tradotto nell'abiura di ogni trapassato idillio, affamato di accuse e di rivalsa nei confronti del suo stesso sangue.
Ribolle questa paura in me, apogeo di tutte le ansie, nel teatro quotidiano di un amore indicibile ma sempre esposto alla deriva, al fortunale, alla forza maggiore che fa di me una persona come le altre: non solo un padre, non solo un rifugio, non solo quello che dovrei essere per pareggiare il merito di stargli accanto. Questo accade. E accade pur vivendo con tutto me stesso la sorveglianza dei modi e la cura per lui e la fuga quando sento di non potermi più tenere: e mi ritengo, a mente fredda, un padre di media decenza.
Ma quando accade questo - saranno state anche solo due volte in quasi cinque anni - per me è come se fosse accaduto sempre. Non sono le ferite del corpo, che può farsi cadendo (e siamo già stati al pronto soccorso quattro volte), o la comune precarietà del suo respiro sulla terra, ma è questa parte immensa di me che affiora nell'acqua dei suoi giorni, questa è la mia ansia maggiore, il suo pericolo più grande: il mondo intero che mi abita come un invasore sanguinario da quando posso dire che toccò a me l'impresa di diventare grande.
Non si smette mai d’imparare
di Alessandro Buttitta
A scuola, ogni giorno, mi trovo di fronte a genitori che vorrebbero vivere la vita al posto dei figli. Genitori che intervengono in ogni discussione, che cercano di risolvere ogni problema, che provano a spianare ogni ostacolo sul cammino dei loro ragazzi. E, mentre li ascolto e osservo, mi chiedo dove finisce la protezione e dove inizia l'invadenza, quale sia il confine tra il prendersi cura e il soffocare.
Non è facile trovare l'equilibrio. Da un lato, c'è il desiderio di proteggere i nostri figli, di evitare loro sofferenze e delusioni. Dall'altro, c'è la consapevolezza che la vita è fatta anche di cadute e di rialzate, c’è la convinzione che soltanto affrontando le difficoltà i nostri ragazzi e le nostre ragazze potranno crescere e diventare autonomi. Come ci ricorda Jonathan Haidt nel suo libro “La generazione ansiosa”, proteggere eccessivamente i figli impedisce loro di sviluppare la capacità di affrontare le sfide.
Ma allora, come possiamo essere genitori presenti e di supporto senza essere iperprotettivi e giudicanti? Credo che la chiave sia semplice ma complicatissima: imparare ad ascoltare i nostri figli, dando loro uno spazio in cui esprimere le proprie emozioni senza sentirsi giudicati. Lasciar loro spazio per sbagliare, perché dagli errori si impara e si cresce. È necessario incoraggiare la loro autonomia, accompagnandoli nel loro percorso di crescita senza sostituirci a loro.
E qui arriva il nodo cruciale. Come possiamo orientare i nostri figli se molto spesso siamo noi i primi a sentirci disorientati? In un mondo in continuo cambiamento, dove le certezze crollano e le prospettive future sono incerte, è difficile indicare un percorso con sicurezza.
Forse, più che dare risposte, dobbiamo imparare a porci domande insieme ai nostri figli. A condividere dubbi e fragilità, a cercare insieme un senso in questo percorso accidentato che è la vita. Perché la paternità, più che una guida infallibile, è un cammino che si fa passo dopo passo. La complessità fa parte del viaggio. Non va temuta. Anzi, è proprio nella complessità che si nascondono le opportunità di crescita e di scoperta tanto per noi genitori quanto per i nostri figli.