14 anni dopo. Sposato, un figlio, un mutuo per i prossimi decenni. Come nel più classico dei classici. Mi rivedo in quel pomeriggio sul lungomare di Aspra, la marina di Bagheria, lì nell’isola triangolare, in provincia del nulla, con i capelli a mezzo collo, stufo di porte sbattute in faccia, sazio di rifiuti e pronto a partire con un biglietto Ryanair preso in offerta a meno di 30 euro, con il trolley piccolo. Di grande c’era solo la voglia di trovare la propria strada.
Mi stavano mandando in avanscoperta, come apripista da sacrificare alla ricerca di una nuova via per il Nord. Nino, Giusto, Alessandro, Fabio erano ancora lì a pensarci su, poi sarebbero partiti anche loro per i loro peripli del globo, ma io ero il primo che, conclusa la breve esperienza al di là dell’Oceano, si rimetteva sulla strada, con questa tendenza alle odissee che caratterizza tutti noi siciliani. Basta un’ora e mezza, quella che ci separa dal check-in al ritiro della valigia ed eccoci in balia di turbolenze che stanno solo nella nostra testa di ciaca, tra le fauci dell’avverso fato. Troppo lontani dal mare della terra natia, incapaci di voltarci per non rischiare di guardare l’isola gorgone e rimanere impietriti davanti alla sua violenta bellezza. Capita spesso di farlo adesso, ora che i capelli grigi hanno vinto su quei residui di castano e anche la barba si è schiarita. Ora nello zaino ho un altro paio di occhiali, qui non sono mica semplicemente occhiali da presbite, sono “occhiali office”. Perché tutto girava attorno al lavoro, a quello che fai, alle azioni che compi, alle gesta che segnano il tuo destino. Sballottati a destra e sinistra, lungo le isoipse delle cartine dell’Italia.
REMINESCENZE
Chissà se mettono ancora nelle aule la cartina dell’Italia, il crocifisso e quei cartelloni con il corsivo e lo stampatello di tutte le lettere dell’alfabeto. La D di dado, la O di Oca, le vocali che si legavano alle consonanti per creare quei suoni che avremo imparato a pronunciare e scrivere, quaderno dopo quaderno, dettato dopo dettato. Nell’estate del paleolitico 1987 per passare in primina dovetti superarne uno che era l’oscena incarnazione di tutti i dettati, zeppo di parole che poi ho rincontrato solo nelle pagine di Moby Dick tradotto da Pavese: becchettio, rollio, gocciolio. Era la storia di una barchetta di carta che scivolava lungo un fiumiciattolo sino a quando un vento maligno (lo stesso che aveva spedito la ballerina di carta amata dal soldatino di stagno tra le fiamme del camino?) finiva per mettere tutto a soqquadro.
DIVANI
L’altra sera, come spesso capita, io e mia moglie eravamo sul divano, incerti su quale film “non vedere”, siamo finiti a sfogliare le tue foto, da quando sei arrivato scompaginando tutte le pagine della nostra vita. Ti abbiamo visto crescere di nuovo, foto dopo foto, increduli che fosse passato già tutto questo tempo e che tu fossi cambiato così tanto. Dove si è nascosto quel frugoletto così piccolo che non riusciva neanche a tener su la testa o quel fulmine nella tutina coi pinguini che gattonava a velocità da una stanza all’altra? Saresti entrato perfino nella nostra prima e indimenticabile casa di Milano, così piccola che praticamente abbiamo passato il lockdown lavorando e cucinando senza bisogno di alzarci dalle uniche due sedie del soggiorno.
SOTTOLINEATURE
Sto rileggendo in questi giorni un libretto mirabile: Messaggio per mio figlio di Alejandro Zambra. Uno di quelli che meritano il trattamento che mio cugino riservava ai miei libri del liceo che aveva ereditato, lui sottolineava praticamente tutto, colorava la pagina con gli Stabilo boss, senza lasciare neanche una singola parola non retroilluminata da quel fiume giallo e verde. Ecco il libro di Zambra è uno di quelli che andrebbero sottolineati dal frontespizio alla quarta di copertina. Non poteva che essere un poeta a scriverlo e noi che abbiamo la fortuna di averne uno in redazione li riconosciamo sin dalle prime pagine.
Quello che mi colpisce è l’assenza quasi assoluta di una tradizione. Dato che tutti noi esseri umani – suppongo – siamo nati, sarebbe naturale che fossimo specialisti nell’allevare figli, e invece ne sappiamo ben poco, in particolare noi uomini, che a volte sembriamo quegli studenti beati che arrivano a lezione senza nemmeno sapere che c’era una prova scritta. Mentre le donne trasmettevano alle loro figlie l’asfissiante imperativo della maternità, noi siamo cresciuti viziati e farfalloni, magari cantando anche Billy Jean. A modo loro, i nostri padri ci hanno insegnato a diventare uomini, ma non ci hanno insegnato a diventare padri. Nemmeno i loro padri lo avevano insegnato a loro. E così via.
Quando nasce un figlio e, con lui, un papà, piano piano la polvere di vecchi conflitti con il proprio padre viene spazzata via, come se questa nuova dimensione di vita ti obbligasse a confrontarti con tutto quello che non ricordi nitidamente ma che riecheggia in una memoria tattile e olfattiva. Come se quei ricordi li avessero soltanto il naso e la punta più esterna dei polpastrelli delle dita. Con l’arrivo di Federico respirano di nuovo quei giorni dimenticati, quelle sensazioni che stanno lì nei miei anni più lontani, nell’impalpabile fantasima della mia infanzia in cui si annidano i ricordi di mio padre. Che nonno eccezionale sarebbe stato! Mi ricordo quando mi intagliò la spada di He-man da un pezzo di legno a colpi di raspa, con gli attrezzi del nonno Nino che era falegname. O quando ricostruì una delle corna del mio King Ghidorah che era andata perduta. Lo scrive meglio Zambra in un’altra pagina:
Come spettatori che hanno perso i primi minuti del film ma rimangono allo spettacolo successivo per capire la trama, dimentichiamo proprio la parte dell’infanzia che poi osserviamo nei nostri figli; sono loro a ricordarci quello che abbiamo dimenticato.
Vorrei già raccontarti questi primi anni qui, dove sei nato. Vorrei raccontarti già di quell’uomo che era mio padre.
Spingendosi sul ciglio del paradosso, Zambra lo dettaglia bene:
“I patrigni partono svantaggiati nella fragorosa battaglia della legittimità. Ma a un certo punto qualcuno dice: «Il mio patrigno è stato il mio vero padre». Io voglio sentire storie come questa.
Forse noi padri siamo tutti, in fondo, patrigni dei nostri figli. La biologia ci garantisce un posto nella loro vita, ma rimaniamo sempre ansiosi di essere scelti come padri. Di sentirli dire un giorno questa frase così meravigliosamente strana: «Mio padre è stato il mio vero padre».”
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L’acquisto del libro di Zambra è una buona scusa per posticipare il pagamento della retta dell’asilo. Essendo una spesa di natura formativa, la direttrice capirà sicuramente. Grazie per il consiglio e per la solita capacità di trasmettere con naturalezza concetti complessi dell’essere padre.
Grazie per le splendide parole che danno luce a una vita spesso non chiara al momento; che ha bisogno del tempo per rivelarsi nella sua natura..