Due anni fa, quando stavamo lavorando al primissimo numero di questa newsletter, il mio piccolino non aveva neanche un mese di vita. Io ero un grumo di dubbi e perplessità dentro un calzino sperduto e bucato, mi sembrava di toccare un bambolottino di cristallo. Ora sono un sacco di juta tarmato, pieno di perplessità sempre più piccole e striscianti, capaci di insinuarsi anche nelle routine più collaudate.
Sì, due anni dopo eccoci qui: molto più stanchi, sopravvissuti ai primi 24 mesi con un meraviglioso bimbetto per casa, con tendenze alla monarchia assoluta che stiamo cercando di indirizzare verso visioni più democratiche. Perché non è che tutta la faccenda della paternità sia soltanto meravigliosi sorrisi, momenti di beatitudine ed emozioni irripetibili. Tacendo di pannolini, virus, malattie che arrivano sempre a ridosso del weekend, e dell’eterno ciclo di lavatrici senza fine.
Tutto con la costante sensazione che forse c’è un metodo migliore per fare ogni cosa: per affrontare lo svezzamento, per fargli o non fargli vedere un’altra puntata di Bing o di Bluey, in balia della universale tendenza ad affidarsi a guru di ogni segmento della grande avventura della crescita. Ci sarà l’esperto del sonno, dello spannolinamento, dell’alimentazione pediatrica, la musicoterapeuta che sembra solo una hippie fuori tempo massimo e che gongola oscenamente a farci ululare come lupi in calore, noi e i pargoli, sul pavimento dell’asilo al “saggio” di fine anno.
Siamo vittime di un sistema perfetto per farti sentire costantemente inadeguato. E a puntellare questo ci sono umanissimi cedimenti: sfuriate che cerchi di tenerti dentro, mal di testa che ricacci via, cannonate di “no, no, no!” che sono la risposta per tutto. Quel piccolo adorabile despota ha imparato in maniera del tutto naturale a trincerarsi dietro una provvidenziale immaturità emozionale a orologeria.
Per questo, quando tre mesi fa, nella chat di redazione in cui discutiamo a ruota libera di questioni genitoriali ed editoriali, il nostro buon Bisanti ha messo nero su bianco l’idea che carezzavamo da tempo, abbiamo aspettato, consapevoli che meritasse il giusto spazio: il 50º mirabile numero della nostra newsletter. Un numero tondo che è (soltanto) un primo piccolo traguardo di questo progetto.
L’amore ancora più grande
di Marco Bisanti
Ieri sera tornando a casa mi guardavo la punta delle scarpe impiastrata di birra. Roba da ventenne. A quarant’anni e con due figli piccoli succede perché sei troppo stanco e alla cassa, tra il cestino in bilico e il rullo troppo veloce, ti sfugge schiantandosi a terra la terza bottiglia presa per il pranzo dell’indomani con amici. Amici genitori: una categoria a parte (esistono migliori amici da una vita, amici acquisiti dal partner, amici funzionali per ogni attività, scopamici, amici a orologeria e amici genitori). Anche trovandone un paio dignitosi dopo anni di asili diversi, per una sintonia naturale, c’è sempre un buon grado di auto-sorveglianza nei gesti e nelle parole. Guai a mostrarsi troppo dissociati sul rapporto fra idee dichiarate e pratiche educative agite in loro presenza.
Vedersi fa bene, è chiaro. Nella trance schiavista dei mille gesti genitoriali quotidiani, a loro puoi descrivere la Fatica senza temere di essere guardato come ti guardano gli amici single, le coppie volutamente senza figli o chi “figli” chiama i suoi animali domestici: tutta gente per cui sei solo un povero infelice che chissà perché ha scelto di farli. Orrore! Incoscienza! Il rapporto con gli amici genitori si fonda invece su questa immaginifica certezza di comprensione reciproca, rispetto alla felicità controintuitiva vissuta grazie alle nostre pulci amatissime. Ben altro, seppur condiviso, resta sotto il tappeto: il lato bestiale raggiungibile spesso coi pargoli. Una vergogna.
E più siamo “consapevoli”, più ci sentiamo in colpa per le perdite di pazienza che non insegnano niente ma mostrano ai figli l’altra faccia della luna. La retorica genitoriale odierna ci ha tolto ormai anche le pur minime attenuanti per sclerare senza ritegno. Non che sia l’obiettivo, eh. Ma siamo passati dal modello tranciante e inconsapevole vissuto da molti come figli, trenta anni fa, agli opposti ricettari tarati su un consumismo comportamentale ansiogeno, elegia social delle performance migliori, senza riuscire a trovare ancora un punto di equilibrio. Schiacciati tra l’incudine di una politica che se ne fotte dei problemi delle famiglie non ricche e il martello di psico-guru che dicono cosa fare per essere un genitore migliore, con reel in cui informano che abbracci troppo o troppo poco, compri troppi giochi o non quelli giusti, potremmo solo sentir crescere sulla pelle due centimetri di stigma onnilaterale.
Sapete, invece? Perdiamo la pazienza e urliamo; frustiamo il lavandino coi pantaloni che lui non si voleva mettere; dopo ore di tentativi inutili per farla mangiare, andiamo a chiuderci in camera; diamo il peggio di noi urlando incazzati mentre gli laviamo la faccia e lui fa lo scemo. Certo, solo persone sane crescono individui sani; i disagiati non pretendano maturità dai loro figli; non si può urlare a un bambino di essere paziente dimostrando che non lo si è in prima persona - poi che c’è? ah, sì – urlare serve solo a impaurire, l’autoritarismo non è autorità e la rabbia va gestita, non trasmessa. Cose fattibili un paio di volte, quando non sei molto stanco, non hai molto sonno, non hai il lavoro e altri pensieri che ti opprimono. Cose fattibili sempre, quando sei un algoritmo, un software che risolve problemi, un robot in piena regola, una cosa che non contempla né ammette l’errore (mentre noi sappiamo già che li faremo), la contraddizione (quando ci sciogliamo per la smorfia di chi avremmo sbattuto al muro un attimo prima), la fiducia e il perdono (se si sperimenta la libertà di dare ragione all’altro), la visione (pensando al valore anche politico dell’educare e crescere figli), l’amore ancora più grande sulla punta delle scarpe.
Non si smette mai d’imparare
di Alessandro Buttitta
Incastrare i bottoni nelle asole del grembiule blu sbagliando l’ordine. Rendersi conto di non aver supervisionato la pulizia dei denti prima di andare a scuola. Non saper fare bene come la mamma la coda alta ai capelli. Dimenticare la merenda a casa per la prima e seconda ricreazione.
Sono situazioni che ciclicamente tornano nella mia routine mattutina. E ogni volta mi fanno sentire un po' un disastro. Un padre imperfetto, con troppi pensieri per la testa e poca cura per i dettagli. Sono sicuro che pure gli altri padri si sentano così, che pure loro nascondano in realtà fragilità e momenti di sconforto.
Poi, però, guardo Agnese. La vedo correre verso la sua classe, con il grembiule abbottonato storto e i capelli un po’ in disordine, ma con un sorriso enorme stampato in faccia. E mi rendo conto che, in fondo, i miei errori non sono poi così importanti. Che quello che conta davvero è la capacità di riderci su, di trasformare le piccole difficoltà quotidiane in momenti di gioco e di complicità.
Essere genitori vuol dire anche accettare i propri limiti, fare pace con l'idea di non essere perfetti. Vuol dire imparare a non farsi schiacciare dal peso delle aspettative e dei confronti. Perché la verità è che non esistono genitori perfetti, così come non esistono figli perfetti. In fondo, l'importante è esserci. Esserci davvero, con tutta la nostra imperfetta umanità, con i nostri errori, le nostre debolezze, i nostri momenti di scoraggiamento.
Del resto, parafrasando Francesco De Gregori, non è mica da certi particolari che si giudica un genitore. Un genitore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.
Una bellissima ode all’imperfezione, che mi rileggerò ogni tanto per concedermi una pacca sulla spalla e un respiro liberatorio. Grazie.