Ci sono settimane che sembrano mesi, in questa infinita avventura della crescita. Certe volte vorresti avere semplicemente il tempo di fermarti un attimo, guardare tutto quello che succede senza dover riascoltare per la trecentesima volta “Hickory Dickory Dock” nell’attesa che il cavallo salti su quel maledetto orologio a pendolo e che arrivi l’elefante a distruggerla nell’ultimo ritornello. Ma ti sciogli ogni volta quando il piccolo di casa sorride meravigliato “Eccolo!”
Per ora siamo in fissa con il mondo animale, giraffe, gnu, cuculi in tutte le salse, incluso il gioco del verso degli animali, tortura interattiva in cui dobbiamo sempre sentire la sacra triade formata da cavallo, mucca e pollo. Mia moglie ancora si illude di poter governare l’entropia di un duenne che gioisce nel costruire torri sempre più alte per farle ripetutamente cadere. Perdonateci, vicini del piano di sotto, e, se potete, siate indulgenti! Per fortuna ancora non siamo entrati nell’era dei Lego e le costruzioni sono ancora in versione maxi, facilmente schivabili nella lunga notte dei genitori mannari che si barcamenano tra un “lattuccio, lattuccio” e un “ho paura del robot!” che lo guarda male.
Ci hanno fregato anni e anni di irraggiungibili modelli televisivi: Charles Ingalls della piccola casetta nella prateria che costruisce una culla con le proprie mani, martellando direttamente con le nocche dure come granito, dopo che ha salvato i figli suoi e dell’amico dall’ennesimo pericolo e su su, sino all’empireo in cui siede l’innarivabile Howard Cunningham di “Happy Days”, eletto a padre putativo perfino da Fonzie. Se poi cerchiamo esempi in questo millennio, per non farvi magari pensare che abbiamo solo riferimenti della vita prima dello streaming, l’unico che si merita gli onori degli altari laici di noi papà è Jack Pearson di “This is Us”, se non avete visto la serie tv, fatevi un regalo e recuperatela. Poi vi sentirete ancora più imperfetti, ma bastano le note della sigla per riappacificarsi col mondo.
Non sapevo ancora di che avrebbe parlato questa newsletter, poi finisco sui social di un papà che stimo. Uno che alla paternità sta dedicando anche un grande evento di cui parleremo a lungo quest’anno. Aveva scritto semplicemente “Essere padri è un casino”. Un messaggio nella bottiglia per tutti noi, padri imperfetti, con il sogno della paternità che ci covava dentro, in una società che forse non ci ha preparato ad esserlo, se non per imitazione e cooptazione, così di generazione in generazione. Sì, come scrivevamo nel 50esimo numero. Essere padri tante volte è un casino. Forse quando si diventa grandi incominciamo a capire meglio le motivazioni perfino del padre di Giacomo Leopardi, come scrive il nostro Buttitta.
Libero deve restare
di Marco Bisanti
Che casino, papà! Qualche ritorno dalla Sicilia fa – avrà avuto al massimo tre anni – Arturo se n’è uscito così verso le nove e mezza del mattino, mentre la nostra auto in arrivo dal porto di Napoli rallentava per pagare il casello di Roma Est. Meraviglia degli slittamenti lessicali. L’immagine di una piccola casa era rispettata ma, non essendoci affatto traffico, quella volta ci trovammo dunque in un “casino” libero, aperto al transito, per nulla oppositivo o spaesante né rumoroso. Come vorrei che fosse così la vita del padre: un casino libero. Spesso risulta invece un casino pilotato.
Proprio questa domenica, un’associazione dedita dal 1983 all’accompagnamento delle mamme in gravidanza e dopo il parto, ospita un Laboratorio per i papà: «spazio di incontro e confronto per i papà durante il quale costruiremo un gioco per il proprio bambino/a». Dalle tre alle sei del pomeriggio, lasciare mia moglie in inferiorità numerica nei meandri della domenica, per dedicarmi alla falegnameria genitoriale ma in realtà per parlare con altri maschi di quanto siamo evoluti non faceva per me. Il “mio casino” non poteva essere gestito così, non mi sono fatto pilotare. Il casino di tanti padri separati, invece, potrebbe sentirsi accolto da un’iniziativa del genere, ho pensato più tardi: magari oggi non sarebbero stati comunque col figlio, forse è il loro weekend solitario per l’alternanza pattuita con l’ex (fattispecie in costante aumento). Spero di mantenere sempre la giusta lucidità emotiva nel valutare l’enorme massa di iniziative legate alla fetta di mercato scoperta già qualche anno fa: la paternità.
Qualunque siano le parole per definire questo splendido casino, non saranno mai Le cento parole che ogni papà debuttante deve imparare, ennesimo libro (la cui auto-assoluzione paracula risponde al nome di “guida semiseria”) che tenta di cavalcare il brand “paternità” pilotando i nostri acquisti. Libero deve restare il casino particolarissimo di ogni padre, piccola casa aperta al transito di misteri più grandi di noi, immune alla gestione merceologica dei vissuti, esempio luminoso da collocarsi tra l’idiozia dostoevskiana – tramite per una educazione alla bellezza, prima di tutto – e la disposizione del cavaliere oscuro, che non guarda al merito ma a ciò di cui esiste reale bisogno.
Non si smette mai d’imparare
di Alessandro Buttitta
Si può provare compassione per Monaldo? Si può provare empatia verso il padre di Giacomo Leopardi?
La figura di Monaldo incombe come un’ombra severa in ogni passaggio della vita di Giacomo Leopardi. Un padre autoritario, austero, incapace di cogliere la sensibilità e i talenti del figlio. Un uomo legato a un mondo antico, incapace di aprirsi alle inquietudini di Giacomo.
Eppure, oggi, a distanza di anni, mentre parlo ai miei alunni di Leopardi, mi ritrovo a guardare Monaldo con occhi diversi. Con uno sguardo più maturo, forse più indulgente. Mi sorprendo a pensare non solo alle pulsioni di Giacomo, con la sua sete di libertà e di conoscenza, ma anche a Monaldo, con le sue paure, le sue fragilità, il suo amore pieno di rigidità.
Mi chiedo cosa significasse essere padre in quell’epoca, in un contesto sociale e culturale così diverso dal nostro. Mi chiedo quali fossero le aspettative, le pressioni, le difficoltà che un uomo come Monaldo doveva affrontare. E mi chiedo, soprattutto, che tipo di padre sarei stato io se fossi vissuto nell'Ottocento, se fossi cresciuto in un ambiente bigotto.
Probabilmente, sarei stato anch'io un prodotto del mio tempo con le mie convinzioni, i miei pregiudizi, le mie difficoltà comunicative, le mie spigolature. Sono i tempi in cui viviamo a definire, in gran parte, che padri siamo. Forse sopravvalutiamo la nostra sensibilità. Forse, senza rendercene conto, siamo influenzati più di quanto pensiamo dal contesto in cui viviamo, dalle idee e dai modelli che ci circondano.